Alfons Mucha tra destino, teatro e radici: estratto dalla biografia di Patrizia Runfola

Patrizia Runfola (1951-1999) ha insegnato al liceo artistico di Milano e in varie Accademie di Belle Arti (Catania, Torino e infine Milano). Nel suo lavoro di scrittura e ricerca, si è concentrata in particolare sul maestro dell'Art Nouveau Alfons Mucha, pubblicando prima Preziosi ornamenti e poi  Vita di Alfons Mucha. Nel cuore dell’Art Nouveau. Qui di seguito un estratto dal libro.

Alfons Mucha

Alfons Mucha, Rêverie, 1897

Quante volte mi sono soffermata a meditare sulla vita di artisti e scrittori, seguendoli attraverso le vicende che li hanno condotti sulla strada della creazione. Talvolta mi sono spinta persino a immaginare dove il destino li avrebbe portati se un qualunque avvenimento contrario avesse dirottato il corso della loro vita. Oppure, seguendo il verso contrario, rintracciavo in ogni storia quei momenti cruciali che sono alla base di mutamenti profondi. E legando un evento all’altro con ipotetici percorsi, componevo misteriose mappe indecifrabili. Così ogni vita diveniva un tracciato da esplorare e man mano che mi diveniva familiare, si rivelava come la carta geografica di un’anima, che attraversavo in lungo e in largo come un viaggiatore inesausto.

Fin dall’inizio questa storia si era imposta alla mia volontà con prepotenza. Ben presto aveva preso a far parte dei miei impegni quotidiani, come un felice appuntamento. E ogni ora che vi dedicavo sembrava ribadire che non si trattava di una curiosità passeggera. Dapprima mi tenevo sulle mie con il distacco di un osservatore imparziale. Ma poi, varie osservazioni mi spingevano ad ammettere che il mio entusiasmo tradiva una partecipazione ben più radicata di quanto tendessi a dichiarare. Così mi decidevo a coltivare quello che ormai, quasi mio malgrado, era divenuto un progetto. Non ricordo più se si fosse imposto prima il desiderio di ricostruire con la scrittura un’esistenza che fosse particolarmente suggestiva, o se la sua vita me lo avesse suggerito insinuando questo desiderio nel mio animo; ma man mano il piacere di indagare e ricostruire diveniva sempre più vivo e tenace.

Consideravo un tentativo di ricostruzione che rivelasse, nel tessuto delle circostanze, quegli eventi che con regolarità ritornano, quelle cecità e quelle strane veggenze che nel corso della vita ci accompagnano. Non è vero forse che perseveriamo nell’errore che ci è più fatale? E che fuggiamo sempre gli stessi fantasmi? Era determinante quindi che per rispettare la verità di un’esistenza procedessi allo stesso modo nella stesura del mio racconto, mettendo in luce quegli aspetti che – per usare un’immagine immediata – avrebbero costituito le rotaie sulle quali la vicenda avrebbe fatto il suo corso.

Il primo aspetto è rappresentato dal destino. O meglio, da quel sentimento del destino che Alfons Mucha possedeva e che era la coscienza che qualcosa, al di sopra di lui, lo guidasse. Interrogava e ascoltava questo interlocutore benevolo quando uno sguardo terreno sembrava insufficiente a dipanare la matassa degli eventi.

L’altro aspetto, che non è che l’altra faccia di un destino dal volto di Giano bifronte, è rappresentato dal teatro. La sua prima esperienza nell’arte si era infatti dispiegata in questo campo, quando il Ringtheater della grande Vienna andava svelandogli i suoi segreti. Ma ancora più avanti, nel corso degli anni, in svariate circostanze si sarebbe trovato di fronte alla realtà del palcoscenico. Infine, al crepuscolo della sua vita, in una conferenza a Praga nel 1936, avrebbe affermato che il teatro si era insinuato nell’essenza stessa della sua esistenza, che gli appariva come un recitativo interpretato nella grande ribalta della vita. Dietro le quinte la mano del destino, regista consumato, portava avanti inesorabilmente il suo disegno.
Avevo dunque trovato i miei elementi: il destino e il teatro. Entrambi avrebbero guidato il mio lavoro, alternandosi e intrecciandosi nella ricostruzione di questa storia, come allora avevano guidato la sua vita.

Ma poiché è mia viva convinzione che nella scrittura risieda innanzitutto il magico potere di far sorgere delle immagini, mi rendevo conto ben presto che il tracciato che avevo definito mancava di quello spirito che resuscita un’atmosfera, senza il quale ogni narrazione non rimane altro che un resoconto lontano e senza suggestione. Così mi appariva evidente quanto fosse fondamentale mettere in luce il suo «senso della terra», la sua appartenenza a una radice storico-etnica. Questa era infatti la molla di propulsione che agiva in lui come una carica segreta e inarrestabile, come ogni ideale.

Ogni sua convinzione era filtrata da questa lente attraverso la quale egli contemplava ogni cosa. Tutto il suo lavoro era proteso a rivendicare le sue origini ceche, nella caparbia volontà di mettere in luce le radici della storia. Talvolta aveva persino affermato di sentirsi uno strumento che attraverso la sua opera avrebbe compiuto una missione: quella di ridare dignità al popolo slavo. Non si trattò mai di un cieco fanatismo, ma semmai di un vincolo stretto e indissolubile; anche se, talvolta, questa sua attitudine rivelava un’ingenua esuberanza e una fiducia troppo ottimista. È strano, infatti, pensare per quanto tempo egli sia stato osteggiato dai suoi connazionali.

Quanto poco la sua terra gli abbia dato in cambio della sua sincera partecipazione. Eppure, quando Parigi lo glorificava incensandolo e ricoprendolo d’oro, si era definitivamente votato al sogno, da tanto tempo coltivato, di dedicare la sua opera al popolo slavo. Farà sorridere la sua ostinazione a fondare circoli cechi in ogni città. E il suo intenerirsi senza remore dinnanzi a un compatriota che senza esitazioni avrebbe aiutato. Oppure quel suo modo affettuoso di circondarsi di oggetti del folclore moravo che resuscitavano i ricordi della sua infanzia: di utensili sacri che avevano impressionato la sua giovane anima insieme alle suggestioni della chiesa, degli aromi di incenso e della musica o di strumenti musicali che intonava ogni sera, al tramonto, resuscitando antiche melodie sacre.

Come avrei potuto prescindere da tutto questo? Certo non sarebbe stato sufficiente prendere nota e disseminare qua e là le pagine di aneddoti. Si trattava di un profondo sentimento che avrebbe dovuto circonfondere del suo alone questa storia e la sua essenza avrebbe dovuto trapelare come un humus che affiora dalla terra. 

 

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Il libro

Vita di Alfons Mucha. Nel cuore dell'Art Nouveau

di Patrizia Runfola

Introduzione di Claudio Magris
Prefazione di Gérard-Georges Lemaire