Alain Finkielkraut, una delle menti più brillanti e discusse del panorama filosofico francese, dichiara guerra al conformismo del nostro tempo. Una guerra contro i moderni, le loro illusioni e i rischi mortali per l’umanità che esse rischiano di fomentare.
Il libro è un viaggio nel mondo d’oggi e nelle sue insidie, compiuto da un metafisico dotato di modestia, che senza pretese di solennità si diverte a inanellare citazioni di Jules Michelet e brani di Clausewitz, a mettere insieme Goethe e Arthur Koestler per stimolare un corto circuito di idee quando avvicina la nostalgia proustiana di Roland Barthes, guru pentito del radicalismo anni ’70, alla «bontà delle piccole cose» descritta da Vassilij Grossman, un altro scrittore ebreo vittima del totalitarismo.
Nel libro sono raccolte quattro lezioni del corso non «sulla filosofia» ma «sulla loro filosofia» che Finkielkraut da anni destina agli studenti dell’École Polytechnique, la futura élite francese.
La prima lezione, sulla necessità di essere moderni, affronta il tema a partire dagli ultimi scritti di Roland Barthes, dissidente clandestino della sua stessa dottrina in nome di un’idea intima e scandalosa per un moderno: vivere il passato con nostalgia proustiana, come un sopravvissuto al tempo che resiste alla volontà di liberarsene perché in balìa degli affetti più cari, venuti a mancare. La seconda lezione è sulle due culture, l’umanistica e la scientifica, separate oggi da un muro di antagonismo e diffidenza in virtù di due opposte concezioni del tempo, del futuro, della realtà e della natura umana. Perché è la natura umana a essere il vero cuore dell’indagine di Finkielkraut, un moralista con la curiosità del quotidiano, un philosophe che ha mantenuto la sensibilità di un esteta e una passione critica per lo Zeitgeist. La terza lezione è sul XX secolo. Parte da un interrogativo epocale (Cos’è un secolo?), e attraverso la Bibbia, la lezione di Beda il Venerabile e Auguste Comte, arriva a porsi la questione di un «mostro» storico, il ’900, il secolo della tecnica e dello sterminio di massa, in nome di una religione secolare. La quarta lezione, infine, è sul senso del limite: torna sul mito di Prometeo e di Victor Hugo, affronta le tragedie di Eschilo e la figura dei Titani, per mostrare come la hybris, la tracotanza degli antichi, sia divenuta per noi moderni il pane quotidiano, il paesaggio comune entro il quale ci muoviamo e avanziamo.
Il libro dunque è un viaggio nel mondo d'oggi e nelle sue insidie, compiuto da un metafisico dotato di modestia, che senza pretese di solennità si diverte a inanellare citazioni di Jules Michelet e brani di Clausewitz, a mettere insieme Goethe e Arthur Koestler per stimolare un corto circuito di idee quando avvicina la nostalgia proustiana di Roland Barthes, guru pentito del radicalismo anni '70, alla «bontà delle piccole cose» descritta da Vassilij Grossman, un altro scrittore ebreo vittima del totalitarismo.
– Marina Valensise (da «Il Foglio»)
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