Alfred Hitchcock ha permeato la nostra coscienza. Non ho alcun dubbio sul fatto che praticamente tutti nel mondo occidentale abbiano visto almeno uno dei suoi film. Tutti abbiamo visto il mondo attraverso i suoi occhi e lo troviamo terrificante. Alfred Hitchcock era spaventato e riusciva a comunicare la sua paura attraverso le situazioni.
I suoi film fanno paura non tanto perché le persone facciano paura, ma perché sono carine, a volte persino attraenti.
Norman Bates è imbranato, timido, goffo… non farebbe male a una mosca. I suoi film fanno paura non tanto perché siano ambientati nelle fosche ombre della notte, ma perché si svolgono nella splendente luce del sole, in piena vista, in mezzo alla folla. I suoi film fanno paura non tanto perché siano espliciti, diretti, ma perché la sua visione del mondo è un’astrazione. Gli uccelli si chiude su un mondo nel caos, dove tutti camminano in punta di piedi per il resto della loro vita perché, da un momento all’altro, il mondo potrebbe rivoltarsi contro gli esseri umani. Alla fine di La donna che visse due volte, un uomo in preda all’ossessione per una donna vede l’oggetto del suo desiderio morire ammazzato un’altra volta.
La vita non solo ti pianta il coltello nella carne, ma lo rigira anche.
Il motivo per cui tutti si sentono a disagio guardando un film di Hitchcock è perché sanno che potrebbe far fuori qualcuno. Sanno che le esperienze che i personaggi affrontano durante la storia possono danneggiarli o segnarli per sempre: Janet Leigh in Psyco viene pugnalata, la signora Thorwald in La finestra sul cortile viene uccisa e fatta a pezzi, Vera Miles alla fine di Il ladro finisce in manicomio, e praticamente in ogni film che Hitchcock ha diretto viene ammazzato qualcuno. Peggio ancora, Hitchcock ti fa vedere il delitto e l’assassino, ma tu non distogli lo sguardo… vuoi vedere ogni cosa.
Hitchcock non è hitchcockiano. Quando qualcuno dice che un film di De Palma o di Richard Franklin o di chiunque altro è hitchcockiano, di solito si riferisce a certi movimenti di macchina o a certe angolazioni di ripresa. Si riferisce al linguaggio visivo che Hitchcock usava. Così la gente è confusa quando vede i suoi film, perché non sono mai come i film moderni. Il motivo di ciò è che il linguaggio visivo di Hitchcock si sviluppa dalla storia, che è una storia di suspense.
La suspense è l’arte di dire che qualcosa di brutto accadrà in un certo momento, ma tu non vuoi che questo accada. Hitchcock tiene alta la tensione, ti tiene sulla corda, gioca come il gatto con il topo. Il suo tentativo più ambizioso, più prolungato e, diciamolo, più riuscito in questo senso, è Psyco – dopo che Janet Leigh viene uccisa Hitchcock ci tiene all’amo fino alla fine del film, per più di un’ora. Comunque la maggior parte dei registi hitchcockiani si concentra più sugli aspetti di shock presenti in Psyco che sugli elementi di suspense.
Dopo aver visto qualche suo film, ho cominciato a sviluppare l’idea che Hitchcock sia un cineasta cubista. Quello che voglio dire è che lui mette i suoi personaggi dentro un cubo immaginario e muove la camera lungo i suoi lati.
È questo che dà ai suoi film una qualità formale unica.
Considerate queste angolazioni:
- – quando vediamo il protagonista di spalle, scopriamo, vediamo il mondo dal suo punto di vista;
- – di fronte, vediamo le sue reazioni al mondo che lo circonda;
- – dall’alto, abbiamo un punto di vista ironico, distaccato, senza alcuna emozione;
- – di fianco, abbiamo sul personaggio il punto di vista di qualcun altro, di solito inquietante perché non c’è alcun contatto visivo, poi il personaggio si gira a guardarci e ci mette paura. Quest’angolazione è stato usata con grande effetto in L’ombra del dubbio, quando Joseph Cotten a tavola parla dello strangolamento di ricche vedove e Teresa Wright lo guarda, e si vede la sua faccia di fianco.
Controllo
Hitchcock teneva la propria vita sotto controllo con un’ossessiva minuziosità. Non gli piaceva lasciare l’ufficio durante l’orario di lavoro. Indossava sempre lo stesso tipo di abito e lo stesso tipo di cravatta, così non doveva preoccuparsi dei vestiti. Negli alberghi prendeva sempre la stessa suite, così sapeva dove si trovava; si sentiva a suo agio, al sicuro.
Allo stesso modo teneva sotto controllo i suoi film.
Avendo alle spalle un tirocinio di tipo artistico, «disegnava» il film prima di girarlo; il cinema è un mezzo visivo, dopotutto. Proprio come un artista sceglie frutti e modelli da ritrarre, Hitchcock sceglieva gli attori. Un artista dipinge i sentimenti del suo modello, o non proietta forse su di lui la propria sensibilità? Credo che quest’ultimo sia il caso.
Per Hitchcock gli attori rappresentavano uno stile di persona, allo stesso modo in cui gli edifici rappresentano uno stile architettonico. In un’unica visione risulta una combinazione di elementi equilibrata e orchestrata. Per Hitchcock gli attori erano parte sia dell’immagine, sia della storia, sia del significato. Anche se i critici tendono a raggruppare i film con James Stewart o quelli con Cary Grant, supponendo un’ossessione del regista per certi attori e certe attrici, in realtà dimenticano che Hitchcock passava continuamente da un attore e un altro a seconda di quello che la forma e il contenuto del film esigessero. James Stewart è apparso in film del 1948, del 1954, del 1956 e del 1958. Cary Grant in film del 1941, del 1946, del 1955 e del 1959. Non è un comportamento maniacale da parte di un uomo che fra il 1941 e il 1959 ha fatto ventun film!
Tutte le prove sembrano dimostrare che Hitchcock fosse ossessionato dalla protagonista femminile dei suoi film. La teoria di molti critici che hanno analizzato il suo lavoro è che sul set Hitch si divertisse a perpetrare azioni sadiche sulle sue attrici, anche se molte di loro (tranne Tippi Hedren) dicevano che Hitch era un perfetto gentiluomo, a volte troppo protettivo e quasi paterno nella sua sollecitudine. Qualunque sia la verità, bisogna dire che nella maggior parte dei suoi film ci sono protagoniste femminili molto forti o, almeno, storie di donne in difficoltà. Blackmail racconta quello che noi oggi definiremmo un appuntamento con stupro, in cui la donna uccide l’aggressore e la fa franca, cosa che non sembra del tutto giusta se ci si pensa un po’. Molti film di Hitchcock hanno una prospettiva femminile: Sabotage, Rebecca, la prima moglie, Io ti salverò, Il sospetto, L’ombra del dubbio, Marnie… E negli altri film i personaggi femminili sono qualcosa di più che una compagna per l’uomo. Nei suoi film le donne sono indipendenti, dotate di opinioni proprie, qualificate e spesso assai consapevoli della propria sensualità.
Sperimentazione
Dire che Hitchcock era un abile raccontatore di storie è dire poco. È naturale che dopo, diciamo, una ventina di film, la cosa avrebbe potuto anche farsi noiosa, a meno di «stiracchiarsi» di tanto in tanto. Hitchcock si «stiracchiava» con qualche film sorprendentemente minimalista. I prigionieri dell’oceano è un film su un gruppo di persone a bordo di una scialuppa di salvataggio. Tutto qui. È tutto quello che lo scenografo aveva da fare: qualche relitto, l’insolito scafo, il cielo, un po’ d’acqua increspata ed era a posto. Nodo alla gola è una serie di otto inquadrature di dieci minuti ciascuna, ambientata in una stanza d’appartamento. Il set di La finestra sul cortile è James Stewart, costretto nella sua stanza sulla sedia a rotelle, con una gamba ingessata, mentre guarda la gente che abita nelle case che si affacciano sul suo stesso cortile. (Potrebbe sembrare uno strano paragone, ma avete mai considerato il modo in cui Stephen King ha occasionalmente circoscritto l’ambientazione dei suoi libri per «stiracchiarsi» un po’? Cujo per lo più è ambientato in un’automobile. Misery si svolge in una stanza. Il gioco di Gerald lo stesso. Dolores Claiborne è più che altro una conversazione.)
Hitchcock si sforzava continuamente di raccontare delle storie nel modo più fantasioso possibile. Il numero fenomenale di trovate visive che ha escogitato nel suo lavoro, specialmente nei primi film, sono fortemente influenzate dal cinema espressionista tedesco degli anni ’20, che per raccontare storie utilizzava trucchi e immagini simboliche. A questo bisogna aggiungere il montaggio ritmico di Sergej M. Ejzenštejn, di David Wark Griffith e degli altri.
Man mano che il suo stile, la sua padronanza, crescevano, Hitchcock abbandonò le immagini simboliche e usava trucchi e particolari tecniche di montaggio solo per i momenti chiave del film. Un’altra ragione è che, con l’introduzione del suono e della musica, si potevano comunicare realtà ed emozione senza bisogno di simbolismo visivo. Inoltre, gli sporadici movimenti di macchina dei primi film erano degni di nota perché tutti gli altri erano statici. Ai tempi di Il sospetto (1941), per esempio, Hitchcock aveva completamente integrato i movimenti di macchina nel suo stile e la cinepresa spaziava su tutta la scena. Il movimento, mi affretto ad aggiungere, non è gratuito ma assolutamente al servizio del racconto.
Il bicchiere mezzo vuoto
Negli ultimi anni della sua vita, la visione del mondo di Hitchcock si fa più pessimista. I suoi film hanno una soluzione materiale soddisfacente (il cattivo muore, l’uomo accusato ingiustamente non finisce in prigione), ma l’oppressione mentale e le conseguenze persistono (l’ideatore del piano è ancora alla macchia, il personaggio principale deve convivere con i suoi errori, la gente è morta). Alla fine di Sabotatori, Fry cade dalla Statua della Libertà; tuttavia la mente altoborghese dell’organizzazione e i suoi soci rimangono liberi per complottare contro il governo degli Stati Uniti d’America. Alla fine di Blackmail, la ragazza e il fidanzato poliziotto si allontanano camminando, ma non si abbracciano, né si tengono la mano, né mostrano alcun segno di affetto o di complicità. La fiducia reciproca è sparita e non sarà mai più ristabilita. La stessa cosa si può dire di Cary Grant e Joan Fontaine in Il sospetto.
Ecco perché i film di Hitchcock sopravviveranno, perché sono cibo per la mente. Ci scombussolano e non sappiamo perché. Non ci prendono per idioti, ci lasciano ragionare per conto nostro.
Alla fine, capiamo che Hitchcock ci sta dicendo che nella vita non ci sono soluzioni a portata di mano, che non va sempre tutto a posto alla fine.