«Non sono degno di parlare solennemente di Adolf Hitler, la sua vita e il suo lavoro non invitano a parole sentimentali. Era un guerriero, un pioniere dell’umanità e un apostolo del vangelo del diritto di tutte le nazioni. Era una figura di riformatore di altissimo rango e fu suo destino storico di dover lavorare in un tempo di inaudita bassezza, che alla fine lo piegò. Così gli europei devono guardare ad Adolf Hitler. E noi, suoi fedeli seguaci, chiniamo le teste davanti al suo mortale sudario».
Necrologio di Adolf Hitler scritto dal norvegese Knut Hamsun, premio Nobel per la letteratura («Aftenposten» il 7 maggio 1945)
I tipografi dell’«Aftenposten» misero insieme una dopo l’altra le lettere in piombo che formavano l’inverosimile necrologio e non potevano credere ai loro occhi. La Norvegia stava per essere liberata. Gli Alleati erano alle porte. Il contingente di quattrocentomila soldati germanici era già in disarmo e il giorno dopo avrebbe capitolato. E un vecchio e celebre scrittore esaltava il tiranno appena morto suicida?
Chiesero lumi al direttore del giornale che, nonostante le perplessità, decise comunque di mandare alle stampe quel compromettente elogio del Führer: d’altronde non era il disperato canto del cigno di un fanatico qualsiasi, ma l’omaggio a Hitler di un Premio Nobel della letteratura, un narratore stimato in tutto il mondo per quei romanzi, spesso crudelmente realistici, che avevano come protagonisti diseredati, barboni, contadini – gli ultimi e i dimenticati della società.
Knut Hamsun, il cui vero nome era Knut Pedersen, aveva ottantasei anni ed era giunto alla conclusione della sua parabola discendente. Ormai quasi sordo, da oltre un decennio non scriveva più nulla di significativo, se non articoli d’occasione di carattere più o meno politico.
Figlio di contadini diventato sublime narratore, aveva conosciuto i morsi della fame e le umiliazioni dell’immigrazione, e ora si godeva la fama di monumento vivente in una Norvegia che sognava di ritagliarsi un ruolo di rilievo nel nuovo ordine germanico. Ma il sogno si era trasformato in un incubo. Eppure Hamsun non si era ancora risvegliato. Vecchio e malato, mentre l’Europa crollava sotto le rovine, lui vagava nelle nebbie dell’ideologia nazista, credendo che la svastica rappresentasse ancora un sole invincibile a cui guardare. Ecco perché ai suoi occhi Hitler appariva «un guerriero, un pioniere dell’umanità e un apostolo del vangelo del diritto di tutte le nazioni». Il dittatore che aveva gettato l’Europa nella «guerra totale» si trasformava in un «riformatore di altissimo rango». E quando tutto era finito e la sconfitta era già stata proclamata, lui si definiva suo «fedele seguace».
Seguace di un morto, di un’idea culminata in un bagno di sangue.
Ben presto questo paradossale e anacronistico necrologio si sarebbe trasformato in una delle prove più schiaccianti del suo collaborazionismo con l’occupante nazista. In quel maggio del 1945 le prime luci della primavera sancivano la fine del lungo e gelido inverno norvegese. Il ritorno del sole coincideva con il termine dei combattimenti.
In quei giorni freschi e luminosi, di certo Hamsun non si rendeva conto che quelle poche righe di elogio del leader nazista gli sarebbero costate la detenzione, un processo, il manicomio criminale. Per lui, che si era sempre considerato un patriota disinteressato, c’era in serbo l’accusa più infamante: aver tradito la patria, regalando i suoi talenti all’odiato occupante nazista.
Ancora oggi in Norvegia il suo nome viene citato con un certo imbarazzo: un’ombra di un passato che non vuole passare.
Tuttavia il rapporto dello scrittore norvegese con i gerarchi nazionalsocialisti fu tutt’altro che idilliaco. Spesso negli anni dell’occupazione tentò di intervenire presso lo spietato luogotenente di Hitler in Scandinavia, il reichskommissar Josef Terboven, per evitare arresti arbitrari, torture, uccisioni.
Memorabile il suo disastroso incontro con Hitler, avvenuto il 26 giugno 1943 nel rifugio bavarese di Berghof.
Ormai la guerra era già perduta per le armate germaniche. Il Führer sperava di evadere per un momento dalle preoccupazioni belliche, di intrattenersi amichevolmente parlando di letteratura con uno dei suoi scrittori preferiti. Esordì chiedendo: «Il risveglio della terra lo scrisse di giorno o di notte?». Ma Hamsun sviò subito il discorso e si lanciò in una filippica contro Terboven, lamentando i suoi metodi crudeli. Quindi chiese al Cancelliere del Reich la liberazione di alcuni prigionieri politici. All’inizio Hitler, allibito, tentò di rispondere in modo interlocutorio: «Terboven è un uomo di guerra e utilizza metodi di guerra. Quando il conflitto finirà tornerà a Essen in Germania». Ma di fronte alle insistenze di Hamsun perse le staffe e se andò infuriato senza neanche salutare.
Mentre diceva ai suoi collaboratori: «Non voglio più vedere questo pazzo!», Hamsun lo rincorreva dicendo: «Führer! Crediamo in voi!». Il che, se non fosse per la tragicità del contesto in cui si svolse il colloquio, può apparire quasi comico, degno di una scena del Grande dittatore di Chaplin.
Ma Hitler suscitava ancora un fascino inquietante. Anche su menti sopraffine come lo scrittore norvegese. Il suo avvicinamento al nazismo era avvenuto soprattutto per volontà della moglie molto più giovane di lui, Marie Andersen, un’ex attrice nonché fervente hitleriana. Donna dalla tipica bellezza norvegese, un po’ contadinesca e non certo conforme ai canoni estetici hollywoodiani, aveva la capacità di ringiovanire l’anziano scrittore: con lei accanto, Knut si sentiva un ragazzino, un eterno Peter Pan. Marie era anche un’esemplare madre di famiglia: gli aveva dato tre figli, tutti biondissimi. La famiglia Hamsun sembrava uno spot per il perfetto focolare ariano. La fama dello scrittore era già all’apice, avendo vinto il Nobel nel 1920.
Eppure, per la consorte la stella del successo doveva brillare ancora di più per quel marito un po’ impacciato, a suo agio solo nei boschi e nelle biblioteche.
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Traduzione di Luca Taglianetti