Il libro
Quando arriva nelle sale, Pulp Fiction è il secondo film di un regista trentenne che si è fatto già notare dai produttori di Hollywood, ma che pochi conoscono. Eppure il suo successo è travolgente: vince la Palma d’Oro al Festival di Cannes del 1994 e l’Oscar 1995 per la miglior sceneggiatura originale.
Per la carriera di Tarantino, e anche per il cinema indipendente, il film segna un punto di non ritorno. Nei quasi quindici anni che ci separano dalla sua realizzazione, Pulp Fiction è stato oggetto di innumerevoli analisi e discussioni, ma il segreto del suo «richiamo» resta in buona misura indecifrato.
Il film esercita il suo appeal sia sul pubblico colto, sia su quello popolare, mescola alto e basso, concilia arte e consumo. È un vertiginoso groviglio narrativo che articola un’intera antologia di stili e in cui coesistono diversi feticci: la grammatica della violenza; la stilizzazione delle patologie; la narrazione come gioco sadico e farsesco; un senso del presente ermetico. In esso convivono iperrealismo e fiaba, rétro e postmoderno, riciclaggi e invenzioni, confronti e scontri, orologi d’oro e frappè, chopper cromate e spade katana, sermoni e sodomie, gare di twist e spari in faccia. Pulp Fiction è, insomma, un’esperienza estetica globale, e l’icona di un’epoca.